Le restrizioni che l’emergenza sanitaria ci chiama a osservare, per contrastare e superare la pandemia, ci fanno celebrare la Veglia pasquale al tramonto del grande silenzio del sabato santo: essa, invece, dovrebbe precedere o svegliare l’aurora del sole di Pasqua. Viviamo questa veglia, “la più importante e la più nobile tra tutte le solennità”, lasciandoci accarezzare non dalla luce che, all’alba, entra dalla grande vetrata quadrifora dell’abside della nostra cattedrale, ma da quella del rosone che ha la funzione di farne il pieno fino al crepuscolo, quando i colori giocano insieme intorno al sole occiduo, che discende in una “gloria di luce”.
La Veglia pasquale è, per così dire, il poema delle quattro notti. La prima notte è quella della creazione, in cui le tenebre spariscono, dissipate dalla potenza di una “cascata di luce” (cf. Gn 1,3); la seconda notte è quella di Abramo (cf. Gn 15,5; 17,7), quando il grande Patriarca è chiamato alla prova più dolorosa: il sacrificio di Isacco (cf. Gn 22,1-18); la terza notte è quella dell’Esodo, in cui Israele passa il Mar Rosso all’asciutto (cf. Es 14,19-29); la quarta notte è quella a cui ha posto termine l’alba radiosa e splendida della Pasqua del Signore. Il contrasto fra le tenebre e la luce, fra la morte e la vita, fra il peccato e la grazia è il grande tema della Veglia pasquale, “in cui risplendono simboli che, senza imporsi, parlano alla vita e la segnano con l’impronta della grazia”.
Fuoco e acqua: la liturgia affida a questi due elementi della natura il compito di manifestare la pienezza della gioia pasquale. Il fuoco, acceso all’inizio della Veglia, ci ha ricordato che il Signore ha fatto un rogo solo delle tenebre della morte, salario del peccato di Adamo. Al fuoco nuovo abbiamo acceso il Cero pasquale, frutto del lavoro delle api, del loro continuo esodo da un fiore all’altro, di giardino in giardino, come quello che ha colorato e profumato il sepolcro di Gesù. Eloquente, potente è l’immersione del Cero nell’acqua del Fonte battesimale: fuoco e acqua, due nemici giurati, nel linguaggio liturgico stringono una santa alleanza e ci assicurano che con la Pasqua del Signore si è consumata “la morte della morte”.
Gregorio di Nazianzo – vissuto nel VI secolo – parlando del dono nuziale del Battesimo, “prima Pasqua dei credenti”, si esprime in questi termini: “È il più bello e magnifico dei doni di Dio (…). Lo chiamiamo dono, grazia, unzione, illuminazione, veste d’immortalità, lavacro di rigenerazione, sigillo, e tutto ciò che vi è di più prezioso. Dono, poiché è dato a coloro che non portano nulla; grazia, perché viene elargito anche ai colpevoli; battesimo, perché il peccato viene seppellito nell’acqua; unzione, perché è sacro e regale (tali sono coloro che vengono unti); illuminazione, perché è luce sfolgorante; veste, perché copre la nostra vergogna; lavacro, perché ci lava; sigillo, perché ci custodisce ed è il segno della signoria di Dio” (Orationes, 40,3-4).
Disponiamoci a rinnovare le promesse battesimali accompagnando con preghiera unanime la gioiosa speranza di Gabriel, che “nel grembo della Chiesa vergine e madre” sta per ricevere i Sacramenti dell’iniziazione cristiana. La liturgia dei primi secoli prevedeva che i catecumeni emettessero la professione di fede voltando le spalle a occidente e guardando verso oriente, dove nasce il Sole. Il valore simbolico di questo gesto è evocato dall’intero percorso mistagogico della Veglia pasquale, che culmina nella celebrazione eucaristica, “mirabile documento dell’immenso amore di Cristo per gli uomini”, suo “testamento olografo”, scritto con l’inchiostro del preziosissimo Sangue versato sulla croce. L’Eucaristia è il memoriale della Pasqua del Signore, Sacramento del suo “Corpo adorabile, arso d’amore”.
Fratelli e sorelle carissimi, il memoriale eucaristico è, per così dire, la “Galilea delle genti” (cf. Is 8,23) in cui il Risorto precede i discepoli (cf. Mt 28,7). Se non abbiamo il passo veloce di Giovanni che corre al sepolcro (cf. Gv 20,4), mettiamoci al fianco di Pietro e con lui ripetiamo la confessione di fede pasquale pronunciata sulla riva del mare di Tiberiade: “Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17). Se come i discepoli di Emmaus siamo “stolti e lenti di cuore” (cf. Lc 24,25), lasciamoci ammaestrare dal fatto che essi tornano a Gerusalemme, “senza indugio” (cf. Lc 24,33), trafelati di gioia. Se come Tommaso siamo dubbiosi, non dimentichiamo che la nota dell’Alleluia è stato proprio lui a trovarla nel profondo della sua “incredulità credente”, quando si è rivolto al Redentore dicendogli a cuore aperto: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28).
+ Gualtiero Sigismondi