“Servo fedele e saggio! Il Signore gli ha affidato la sua Famiglia”: la liturgia, con questa antifona, ci ricorda che Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio Padre si prende cura degli inizi della storia della redenzione. La figura di Giuseppe, “uomo giusto” (Mt 1,19), è molto defilata nei “Vangeli dell’infanzia”, sta in seconda linea; entra in scena per imporre il nome al Salvatore: “Egli lo chiamò Gesù” (Mt 1,25). Questa è la ragione per la quale la Chiesa Cattolica, chiamata a proclamare che “Gesù Cristo è Signore” (Fil 2,11), è affidata al suo patrocinio. La missione della Chiesa è quella di annunciare il Ss. Nome di Gesù: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12).
Di Giuseppe non conosciamo la voce ma il pensiero. Nell’apprendere che Maria è incinta la malizia non sfiora la sua mente. Nemmeno l’ansia arresta il suo cuore poiché riesce a prendere sonno: in sogno un angelo del Signore lo invita a non temere, a non tirarsi indietro (cf. Mt 1,20-21). Senza rinunciare a fare appello all’audacia della ragione, “anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza”, Giuseppe compie con “coraggio creativo” quello che Dio gli chiede.
Di Giuseppe non conosciamo la voce ma il silenzio. Egli ode il “filo di silenzio sonoro” che attraversa la “placida notte” in cui Maria fascia di stupore Gesù bambino e lo depone in una mangiatoia (cf. Lc 2,7). Egli lo accarezza “da remoto”, con l’eloquente silenzio del suo sguardo attonito; forse avrà fatto proprie, in forma esclamativa, le parole che Salomone pronuncia in forma interrogativa: “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra?” (1Re 8,27).
Di Giuseppe non conosciamo la voce ma il passo. Il passo agile del viaggio compiuto con Maria, sua sposa, salendo da Nazaret in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme (cf. Lc 2,4); il passo, amplificato dal battito cardiaco, della fuga in Egitto (cf. Mt 2,13-18) e quello scandito dalla gioia grande del ritorno a Nazaret (cf. Mt 2,19-23); il passo dell’angosciosa ricerca di Gesù, trovato nel Tempio di Gerusalemme seduto in mezzo ai maestri (cf. Lc 2,41-50).
Di Giuseppe non conosciamo la voce ma il respiro. Il respiro con cui egli, all’arrivo dei Magi, si fa da parte per lasciare al bambino e a sua madre il solenne omaggio dell’adorazione e della lode (cf. Mt 2,1-12); il respiro che interpreta lo stupore di tutto il creato al sentire, dalle sue labbra, il nome di Gesù, “che è al di sopra di ogni altro nome”, dinanzi al quale si piega “ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra” (cf. Fil 2,9-10).
Di Giuseppe non conosciamo la voce ma lo sguardo. I suoi occhi non si staccano mai da Gesù: lo vedono crescere “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). Egli segue i passi di Gesù con discrezione, “misura alta” dell’attenzione, testimoniando cosa voglia dire amare senza possedere. “Forse per questo – scrive Papa Francesco nella Lettera apostolica Patris corde –, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di castissimo. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso (…). Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo se stesso al centro (…). La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé”.
Fratelli e sorelle carissimi, “ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio”. Giuseppe ci insegna che non basta spendersi ma occorre donarsi, non è sufficiente sacrificarsi ma è necessario consegnarsi, non serve a nulla consumarsi, sia pure per una nobile causa, se non ci si abbandona alla fedeltà di Dio, nella serena fiducia che “i Suoi disegni si realizzano attraverso e nonostante la nostra debolezza”.
O Beato Giuseppe, “tu hai convertito l’umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di te”, ottienici la grazia di amare “senza paura, senza calcoli e senza misura”. Tu sai quanto la nostra condizione umana, altissima nella dignità, sia così fragile, benedici la nostra città, la nostra diocesi, le nostre famiglie: aiutaci a riconoscere che “unico fondamento della nostra speranza è la grazia che viene da Dio Padre”.Tu puoi tutto presso Gesù e Maria, “mostraci che la tua bontà è grande quanto il tuo potere di intercessione”.
+ Gualtiero Sigismondi