“Vir vitae venerabilis”: questo è il ritratto di san Fortunato racchiuso nei Dialoghi di San Gregorio Magno. Più che i prodigi compiuti è il muto linguaggio delle pietre di questo luogo a lui intitolato a raccontare la venerazione del popolo tuderte. La cuspide della torre campanaria di questo tempio è visibile da ogni parte, quasi a ricordare a chiunque la osservi che lo sguardo benedicente del Patrono abbraccia l’intero territorio tudertino. Chi arriva da Perugia ne scorge in lontananza la mole; chi viene da Orvieto intravede, incastonata in mezzo al verde, la sua struttura; chi transita sulla E45 si accorge della sua centralità nell’impianto urbanistico medievale di Todi; chi la scruta dalla parte del Tevere nota che, rispetto alla torre campanaria della Ss. Annunziata, è fuori scala. Quando sono salito per la prima volta quassù, come vescovo, ho inteso che i rintocchi del campanone della concattedrale fanno vibrare la facciata di questo tempio, che custodisce le spoglie mortali di “coloro che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace”.
San Fortunato, associato alla gloriosa schiera dei pastori, merita il titolo di “exemplar gregis”, a cui accenna Pietro quando esorta gli anziani delle comunità cristiane dell’Asia Minore “a pascere il gregge di Dio non perché costretti, ma volentieri, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni, ma come modelli del gregge” (cf. 1Pt 5,2-3). Può essere utile osservare al microscopio queste parole, mettendole sotto la lente delle letture appena proclamate (cf. Is 61,1-3; 2Cor 4,1-7; Gv 10,11-16). Mi dispongo a compiere questa analisi non con l’intenzione di insegnare, ma con il proposito di imparare la lezione, mai pienamente assimilata, del servizio pastorale.
Pascere il gregge di Dio non per forza, ma volentieri, significa lasciarsi guidare dallo Spirito: non basta essere disponibili alla sua azione, ma occorre essere docili alla sua unzione. La disponibilità senza la docilità non garantisce la fedeltà, non assicura la gratuità e non rende possibile l’agilità. La disponibilità non porta frutto senza la docilità di un cuore libero e ardente. La disponibilità, pur essendo asintomatica, potrebbe essere positiva alla superbia e all’orgoglio; la docilità, invece, è segno di vera libertà, di sincera umiltà.
Pascere il gregge del Signore non per vile interesse, ma di buon animo, vuol dire resistere alla tentazione di annunciare se stessi, piuttosto che Cristo Gesù Signore. La paura di perdere consenso obbliga, anzi, costringe a “velare” il Vangelo, a “falsificare” la parola di Dio. La mancanza di parresia invano cerca di trovare giustificazione nelle parole di Paolo: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta” (2Cor 4,7). Una cosa è riconoscere che ogni anima ha la sua “pienezza del tempo”, tutt’altra cosa è osare fare sconti alla “verità tutta intera”.
Pascere il gregge del Signore senza spadroneggiare su di esso, significa non comportarsi da mercenari. La differenza tra il pastore e il mercenario sta nel fatto che a quest’ultimo non gli importa delle pecore: gli interessa solo fare mercato. Egli le possiede ma non gli appartengono, tanto che alla vista del lupo le abbandona e fugge; le conta ma non sa chiamarle per nome ed esse non seguono la sua guida. Con il suo bastone e il suo vincastro dà loro la “carica” ma non le “carica” sulle spalle o sul petto, poiché non è disposto a donare loro la propria vita.
La testimonianza di san Fortunato racconta cosa succede quando un pastore dal cuore integro si accredita non solo come defensor fidei ma anche come defensor civitatis. Egli, che ha guidato la città di Todi prima del 553 – anno in cui i Goti, sconfitti definitivamente, hanno lasciato l’Italia –, ha costruito l’edificio del suo episcopato secondo un unico principio architettonico: “l’attenzione alla città non è separabile dall’impegno ecclesiale”. Esprimendo la caritas nella polis, san Fortunato ha manifestato le sue doti di governo, che potrebbero essere così elencate: rigore morale, equilibrio politico, capacità di mediazione, forza decisionale, senso istituzionale e sguardo rivolto al futuro.
Al tempo della fine dell’Impero romano, con le continue invasioni barbariche, san Fortunato ha testimoniato, con la sua autorevolezza sociale e il suo zelo pastorale, che le opere di Dio nascono sempre nelle bufere della storia. Nell’attuale cambiamento d’epoca, segnato da dure prove e stimolanti avventure, con animo grato supplichiamo san Fortunato di vegliare su di noi. Ancora oggi, a oltre millequattrocento anni dalla morte, il popolo tuderte continua a invocarlo, con serena fiducia: “O praesul Fortunate, spes tuorum civium”.
+ Gualtiero Sigismondi