La Messa crismale invade di un senso di vastità e di armonia la Settimana santa, che è possibile paragonare ad un’immensa cattedrale, “in cui l’occhio si perde e l’anima si libra, sollevata in alto dall’agilità e dalla forza con cui la materia è salita a formare l’edificio”. La Domenica della Palme è il portale che introduce i fedeli al mistero pasquale; la Messa del crisma riempie dell’aroma del profumo di Cristo le navate in cui si raccoglie il popolo sacerdotale; la Messa in Coena Domini e la Celebrazione della Passione del Signore sono i bracci del transetto connessi dall’arco trionfale; il Sabato santo, avvolto dal silenzio dell’ombra luminosa della Croce, è assimilabile alla cripta, mentre la Veglia pasquale è una sorta di abside dell’altare maggiore, inondata dalla luce del Redentore.
La Messa crismale, “quasi epifania della Chiesa”, con il rinnovo delle promesse sacerdotali e la benedizione degli oli manifesta che la comunità ecclesiale è edificata dalla feconda tensione tra sacerdozio battesimale e ministeriale, che pur nella distinzione si radicano nell’unico sacerdozio di Cristo, “Pontefice della nuova ed eterna alleanza”. “Egli – recita il prefazio dell’odierna liturgia – comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l’imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza”. La sproporzione tra la grandezza del mandato ricevuto e l’esiguità dell’operato aumenta la trepidazione e moltiplica la gratitudine. L’una e l’altra impregnano il nostro ministero e lo impegnano, come raccomanda Papa Francesco nella lettera apostolica Patris corde, a testimoniare che “ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio”.
“I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Di questa consapevolezza non rimanga privo il nostro ministero, che va esercitato guardando alla costanza e alla pazienza del seminatore (cf. Gc 5,7-11), il quale deve gettare il seme a piene mani, senza limiti di disponibilità. Deve lavorare con fiducia e dopo la fatica riposare sereno, perché il seme della Parola ha i suoi tempi di crescita, in mezzo alla zizzania, nel terreno senza confini dei cuori. Deve scorgere i “semi del Verbo”, sparsi ovunque, e scrutare “i campi che già biondeggiano per la mietitura” (cf. Gv 4,35). Questa capacità di discernimento ci sollecita ad affrontare ardue sfide pastorali che non si disegnano con interventi parziali, ma individuando le priorità da cui partire con lungimiranza e concretezza. La messe è molta e gli operai sono così ridotti che non si può rinunciare a sentire compassione per le folle (cf. Mt 9,36), esplorando vie nuove che promuovano il processo di transizione – non di transazione! – dal modello tridentino di prete a quello delineato nel decreto Presbyterorum Ordinis, secondo cui la dimensione cristologica della consacrazione è iscritta in quella ecclesiologica della missione, che lo configura come “servo premuroso del popolo di Dio”.
Fratelli e sorelle carissimi, pregate per i vostri sacerdoti e anche per me: condividere gli slanci e le stanchezze del ministero è un compito a cui siete allenati. A voi è chiesto di sostenerci come Aronne e Cur hanno aiutato Mosè a tenere le mani alzate (cf. Es 17,11). “Sappiamo quanto sia facile – avverte Papa Francesco – essere contagiati dal virus dello scoraggiamento”, la cui carica aumenta in proporzione alla debolezza della comunione. Quanto questo sia vero lo sottolineo con autorità e carità. “Dal vescovo – osserva San Tommaso d’Aquino – si esigono tutte e due le cose insieme, autorità e carità: la prima senza la seconda non è sufficiente” (Esposizione su Giovanni, 10,3). E, tuttavia, nemmeno la carità senza autorità basta: sarebbe come olio privo del profumo con cui si prepara il crisma. Assumere la solitudine dell’autorità: questo è carità, “olio di letizia”, che mi dispongo a versare nell’ampolla della sinodalità, fino all’orlo.
Sin dai primi passi del mio ministero episcopale in mezzo a voi mi accompagna l’interrogativo che il Signore pone a Geremia in una circostanza drammatica: l’avanzare del re di Babilonia contro Gerusalemme. In quel frangente, Dio dialoga con il profeta chiedendogli: “Che cosa vedi?”; egli risponde: “Vedo un ramo di mandorlo” (Ger 1,11). Lo scorgo anch’io, fratelli e sorelle carissimi, e ve lo confido, oggi, in questa celebrazione, che nell’arco delle stagioni dell’anno liturgico ha una funzione analoga a quella del mandorlo in fiore: spande il profumo di una nuova primavera di grazia sulla nostra Chiesa particolare, che benedico con la formula suggerita da San Paolo ai fedeli di Roma: “Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12).
+ Gualtiero Sigismondi